Testimonianza di Renato Civello – 1970
C’è chi subordina alla necessità espressiva il problema dei volumi e del colore, pervenendo come Munch alle più drammatiche allegorie esistenziali, e c’è chi invece, accentuando il fauvismo matissiano, dissolve in un puro fasto decorativo le cadenze dei piani e dei toni-luce. Altri artisti, come Rodolfo Cristina (il quale si è maturato nell’alveo di una classica misura non insensibile ai migliori fermenti del linguaggio moderno, riproponendo in termini personalissimi la lezione carraiana), assumono nella propria opera la forza mediale che nel contesto di una libera figuratività, fuori di qualsiasi rottura eversiva, armonizza qualità formali ed esigenze contenutistiche.
Conosco Cristina da molti anni e trovo che egli non è mai venuto meno a questo impegno: l’intero arco della sua produzione, da quella del romantico studio-capanna sul mare di Pozzallo alle ultime tele romane, è tenace documento di una lucida saggezza derivata dalla persuasione e dalla autocritica, e perciò stesso testimonianza di una profonda consapevolezza insieme culturale, umana ed estetica. Per questa via Rodolfo Cristina ha esaltato le proprie disposizioni native, filtrandole accuratamente nel complesso gioco delle comparizioni e delle scelte e nello stesso tempo rendendo coralmente fruibili le ricorrenti impennate dell’istinto. L’eloquenza di certe sue figure di pescatori, legate ad una tristezza antica, l’elegia sommessa di certe marine e di certe campagne che dilatano la loro dolce musica nel respiro del giorno, la raccolta morsura di certe contemplazioni floreali o la pienezza quasi metafisica delle nature morte, sono i segni non di un pittoricismo fondato sulla suggestione dei temi ma piuttosto di un dettato interiore: capace cioè di travestire l’immagine con le indicazioni di una stagione spirituale senza nulla farle perdere del rapporto sensibile.
Non c’è dubbio che il possesso del disegno e di tutti i segreti del cromatismo giovino all’artista perché il connubio struttura-idea, ritmo compositivo-avvertimento sentimentale si realizzi nel modo più concreto. Ma la meditazione e la conoscenza tecnica in un pittore della classe di Cristina non escludono affatto la spontaneità creativa; la stimolano anzi ed insieme la sorreggono eliminando gratuità e approssimazioni.
Così, si stagliano nette, con una freschezza di resa ormai desueta nei più larghi strati della figurazione contemporanea, delle opere che l’osservatore attento non potrà facilmente dimenticare; nelle quali anche il contrappeso delle campiture brune è imbevuto di luce e l’atmosfera sì accorda, nel giusto mezzo fra gli ovattamene di tipo impressionistico e i coaguli geometrizzanti dell’impaginazione, ai valori oggettivi di tavolozza. Potremo dire dunque che Cristina abbia scelto il proprio tempo? Che si sia acclimatato anche lui sulla piattaforma della ‘ricerca ad ogni costo‘ o dell’oggettualismo visualistico? È vero invece che egli ha scelto se stesso, condizionando preliminarmente alla certezza di una pittura-poesia tutti i propri interessi, le inclinazioni individuali e le contiguità di scuola: tra filoneismo ed arcaismo misoneista egli ha tracciato coi suoi magnifici paesaggi e con l’acuta penetrazione delle sue figure un solco sicuro, recuperabile dell’uomo e per l’uomo contro il massiccio tentativo della disumanizzazione integrale.
Questo è, per me, Rodolfo Cristina; perché sono assolutamente convinto che la più che ventennale amicizia che ci lega non ha preso la mano allo studioso d’arte, ma è servita anzi a dare una dimensione più aperta al discorso critico, salvandolo dalle secche di una astratta valutazione. Resteranno, a confermarlo, i cieli del sud e i mille stupori dell’essere: le presenze vive di una pittura indifferente ai flussi e riflussi delle mode e pronta a rinverdire, per la felicità di sempre, il cammino della speranza.
Renato Civello